EPISODIO #1
ficus macrophylla f. columnaris
botanical garden of the university of palermo
Sono più di ottocento lune che non esco da qui.
D’altra parte io esisto in funzione di questo luogo del suo divenire.
Decisi che non mi sarei più mossa, che sarei rimasta qui a presidiare, in seguito ad un trauma. Mi sembra fossero gli anni cinquanta – quando sentii parlare di un piano della città di Palermo che prevedeva qualcosa di folle. La costruzione di una grande strada che avrebbe tagliato l’Orto Botanico in due.
La strada sarebbe passata praticamente in mezzo, il transito dei veicoli avrebbe fatto tremare tutte le piante, spezzato l’equilibrio che avevano raggiunto dopo quasi 200 anni. Avrebbe disturbato il volo e il canto degli uccelli, ostacolato il passaggio degli insetti, per non parlare di quello dei gatti. Avrebbe reso questo luogo meno adatto alle sperimentazioni dei botanici, meno piacevole da curare, meno incantevole per i visitatori.
Quella strada mi avrebbe messa a dura prova.
Forse avrei smesso di esistere…
Per fortuna, l’uomo che al tempo guidava l’orto, Francesco Bruno si chiamava, ebbe un’idea geniale. Non mi è stato chiaro cosa avesse davvero escogitato fino a che non l’ho sentito raccontare qualche tempo fa da un altro uomo, un uomo che oggi si prende cura della vita in questo orto, e in qualche modo anche di me. Si chiama Manlio Speciale.
[Manlio Speciale] Cioè si sapeva che c’erano questi resti di questo portale, di questa chiesetta, non è che tanto ben definita la questione diciamo dal punto di vista dello studio comunque chiaramontana, di chiaro stile chiaramontano perciò del Cinquecento. A questo punto Francesco Bruno con i suoi “figghi”, li chiamava così in siciliano, in dialetto siciliano, i suoi giardinieri che erano tanti allora… Ha deciso, ha pensato bene di… Nottetempo, in una bella notte di luna piena, in qualche modo così si vedeva qualcosa, con le carriole di prendere tutti questi pezzi di questo portale cinquecentesco e montarlo esattamente dove passava la strada che si voleva costruire. Ha subito vincolato il bene monumentale alla Soprintendenza ai Beni Culturali …fino a bloccare definitivamente la costruzione di questa di questa strada.
Le rovine del portale non sono mai state rimosse dall’Orto. Ogni volta che le guardo tiro un respiro profondo che si confonde con quello delle piante che mi circondano, un respiro preistorico.
Io invece sono relativamente giovane. Sono nata a cavallo tra settecento e ottocento, tra illuminismo e romanticismo, in un’epoca animata da uno spirito di trasformazione, di unione degli opposti. La scienza, la tassonomia, la sperimentazione…qui, in questo luogo, incontrano la poesia.
Per questo mi reputo inquieta…ma forse farei meglio a dire curiosa? Faccio fatica a definirmi. Manlio Speciale lo fa meglio di me.
[Manlio Speciale] L’attività diciamo in qualche modo che determina questa cosa chiamata “genius loci” in questo orto botanico come in fondo in qualsiasi altro giardino storico è la sua stessa come dire attività. È il suo stesso svolgersi giorno per giorno, cioè è un è un aspetto della vita si potrebbe dire, il genius loci che viene alimentato dalla vita stessa.
Forse anche detto così non è facile da comprendere. Per spiegare cosa sono – la genius loci dell’Orto botanico di Palermo – e il senso della mia esistenza, serve un paragone con una foresta.
[Manlio Speciale] Una foresta vera può fare a meno dell’uomo egregiamente. Anzi direi che se non ci mette piede l’uomo direttamente fa la cosa migliore. Invece qui dovrebbe essere pieno di persone. Perché è il luogo per eccellenza delle piante ma è il luogo per eccellenza anche delle persone.
[suono voci e radio di sottofondo]
Amo le persone, e amo quando accendono la radio. Quando sento arrivare il motocarro dei giardinieri mi avvicino sempre nella speranza di sentire qualche secondo di musica. Poi cominciano altri suoni, quelli del lavoro duro, che qui – va detto – non manca.
[Manlio Speciale] Un orto botanico è completamente frutto della forzatura direi addirittura che l’uomo fa. Ma d’altronde qualsiasi museo. Cioè noi costringiamo nei musei opere e nature artistiche a stare vicine forzosamente e forzatamente anche nella stessa sala alcune volte, stili completamente diversi, mondi completamente diversi, per avere un quadro se vogliamo culturale magari più completo possibile. Così spesso lo facciamo negli orti botanici che trasgrediscono spesso anche le leggi agronomiche di coltivazione. Cioè noi le piante mettiamo un po’ troppo vicino e spesso e volentieri perché vogliamo che quella aiuola delle sapindaceae piuttosto delle anacardiacee contenga più generi possibili di quella famiglia e anche più specie. Però la pianta starebbe forse un po’ meglio a una distanza maggiore, no? Perciò, tutto questo tipo di forzatura, fra virgolette, deve andare in un equilibrio comunque, un equilibrio che deve essere sempre attenzionato dall’uomo.
Questo equilibrio, e questa cura, sono alla base della convivenza di piante originarie delle più disparate parti del mondo che altrimenti non si sarebbero mai incontrate. C’è il ficus macrophylla forma columnaris che viene dall’isola di Lord Howe, tra Australia e Nuova Zelanda, e che ormai è diventato la mia casa….c’è la palma reale di Cuba, le piante di Cyperus papyrus egiziano, gli agrumi dell’estremo oriente portati in Sicilia dai commercianti arabi…e anche piante curiose come la Ceiba speciosa che per la forma del tronco un po’ bizzarra, rigonfia, qui chiamano albero bottiglia.
Centinaia di specie che convivono in uno spazio di più di 10 ettari. In molti si chiedono come sia possibile irrigare un terreno così ampio e dare acqua a tutte queste piante. La risposta sta nella genialità di questo luogo, che risiede anche in strati invisibili.
[Rosario Schicchi] Il clima è mite, c’è disponibilità di una falda idrica superficiale che consente a tutte le piante dei vari continenti di trovare un optimum per la loro crescita…e quindi la falda idrica essendo superficiale permette all’acqua di risalire per capillarità e le radici la intercettano e si alimentano. Il ficus da solo assorbe una quantità enorme di acqua, ci vorrebbero almeno due autobotti al giorno.
L’uomo che oggi dirige quest’orto conosce profondamente gli alberi monumentali e riesce ad immaginare bene le esigenze delle piante più grandi e spettacolari. Rosario Schicchi, è così che si chiama, ha però anche una grande sensibilità per quelle che alcuni chiamano erbacce. Un nome ridicolo…che a me non fa ridere. È anche grazie a lui se all’orto viene sempre più valorizzato il giardino dei semplici.
[Rosario Schicchi] Io ricordo una signora un giorno venne nel mio studio per farle devo fare un appunto. Mi dica signora, ci sono troppe erbacce in questo orto. Ci sono cartacce? No erbacce. Ah! Erbacce? Cos’è un erbaccia? Non so cosa siano le erbacce. E allora la porto con me. Dico signora, è questa? Sì. Ah, sì, questo è perfetto. Signora. Lei ha verruche? No. Se avesse le verruche le farei scomparire con questo liquido. Ma sa cosa succede in natura? Che la rondine stacca questo rametto, lo porta a contatto degli occhi dei rondinini e cura la congiuntivite. La possiamo chiamare erbaccia? No.
Sta parlando della celidonia e del suo succo giallastro. Ma questo discorso vale anche per piante che molte persone evitano attivamente…d’altronde si insegna che alle ortiche bisogna stare attenti.
[Salvatore Schicchi] Beh, l’ortica non è un erbaccia. Se banalizzo, possiamo fare un risotto con le ortiche. Se io la togliessi, cosa farei vedere ai visitatori? Beh l’ortica devo dire che è una pianta alimentare e che ha contribuito a sfamare popolazioni. Poi l’ortica… ho spiegato alla signora che io se ho le mani intorpidite ne vado a strofinare nelle ortiche. Qui peli urticanti se usati in piccola quantità e stimolano la circolazione, allora non è più un erbaccia, ma è un’erba che ha diritto di esistere in questo orto, come lo hanno gli alberi che sono stati messi a dimora.
Insomma se dovessi descrivere l’Orto Botanico direi che è un luogo terapeutico per curare non solo la circolazione delle mani ma anche la cosiddetta cecità alle piante, un difetto cognitivo degli esseri umani il cui cervello spesso non vede, non registra, la presenza delle piante, tanto meno delle cosiddette erbacce. Invece, e questo per me è davvero curioso, tutti i visitatori notano i frutti degli alberi di agrumi caduti a terra, e in molti borbottano commenti sullo spreco.
[Paolo Inglese] La gente si lamenta ci sono le arance per terra ma i frutti quando cadono dove devono stare? Nella nostra pancia per forza? No. I frutti cadono per terra perché è carbonio che si ricicla, fine. Dal punto di vista ecologico il frutto deve cadere per terra, lasciare i semi e morire. Deve fare questo. Non serve a fare un’insalata di arance con l’aringa, il finocchio… mentre noi diciamo che spreco, ma che spreco?…è spreco mangiarselo dal punto di vista delle piante.
Anche quest’uomo si è visto in giro per lungo tempo. Il suo nome è Paolo Inglese. Questo è un orto universitario e lui ha guidato le attività museali dell’università. Girava per i viali in bicicletta, e dietro i suoi occhiali manteneva uno sguardo attento su tutto, dal più stupido pezzetto di carta appallottolato per terra – che non mancava di raccogliere – allo stato degli alberi più imponenti.
Quando era con degli ospiti si fermava spesso davanti al ficus magnolioide, quello in cui vivo. È più antico dell’orto ma anche il primo ad essere stato piantato in Sicilia. Mi sembra fosse metà ottocento. Lo ricordo, sembrava un alberello, arrivava da un vivaio francese…nessuno si aspettava che sarebbe diventato così.
[Paolo Inglese] Sono alberi dominanti nei loro ambienti..dominanti significa che costituiscono degli ecohabitat praticamente in sé. Quest’albero è un habitat in sé. Non cresce niente intorno o comunque nel suo areale di dominio delle sue radici e della sua chioma. Un albero molto competitivo. Lui strangola, è il ficus strangolatore, cresce intorno a un albero primario o secondario, lo circonda e poi sviluppa questo suo tronco con questa chioma immensa. E ha inventato questo sistema, questo suo modo di sostenere il peso dei rami che sono le radici aeree. I rami crescono in molti casi con un angolo di 90 gradi rispetto al tronco principale, significa che crescono quasi perpendicolarmente al ramo principale.
Le radici aeree quando toccano terra sembrano diventare a loro volta alberi…questo albero sembra una foresta.
[Paolo Inglese] Quest’albero è proprio una dimostrazione di come un albero non sia un individuo. L’albero è una gigantesca comunità. Se pensi che ogni foglia fa la fotosintesi da sola c’è e che questa cosa che noi potremmo immaginare nel nostro modo antropomorfo di pensare come un singolo essere vivente in verità è una gigantesca comunità in sé.
Questa comunità si manifesta in coro verso sera, poco prima del tramonto. Poi cala il sole… e insieme al sole, il silenzio. È in quel momento che anche io mi ricordo di riposare. Dall’alto del ficus mi guardo intorno. I visitatori sono usciti, i giardinieri hanno terminato di lavorare, non si vedono più persone. Restano solo gli animali e le piante. A volte il mio occhio si posa su una pianta proprio davanti al Ficus, una Chamaerops humilis, ovvero una palma nana, che in teoria crescerebbe dritta ma qui è tutta ritorta.
E in momenti come quello, che ripensando anche al mio compito, mi rendo conto che questo mondo delle piante non è sempre idilliaco. Anche tra loro ci sono scazzi mostruosi.
[Rosario Schicchi] Questo ficus aveva dei rami che arrivavano qui alla palma nana. E la palma nana ha ricevuto il messaggio messaggio qual è stato vuoi vivere allontanati quindi ha dovuto modificare la forma del fusto serpeggiare alla ricerca della luce. Guarda cosa ha fatto questa… si incurva, tocca la terra, si alza, fino ad arrivare al punto in cui riceve la quantità di luce sufficiente per compiere la fotosintesi clorofilliana. Ecco, questa pianta le ha detto: “Spostati, se vuoi vivere. Senza neanche toccarla”.
L’hanno chiamata humilis, questa palma è più che altro patĭens. Resiste a tutto.
Come dicevo non esco da questo orto da più di mezzo secolo, ma so che a pochi chilometri da qui, verso ovest, ci sono palme che sopravvivono al fuoco. Così come a est ci sono alberi che vivono per secoli sulle pendici di una montagna che sputa lava, o agrumi che crescono in mezzo al mare, tra mura di pietra circolari per resistere al vento, o mandorli che fioriscono dove il cemento ha portato solo macerie.
Penso continuamente a queste piante, fuori dai confini dell’orto, all’ultima volta che le ho viste. E so che ora sono immerse in un paesaggio naturale e sociale completamente nuovo. Un paesaggio che non conosco…
ma di cui sono terribilmente curiosa.
Secondo me posso stare tranquilla.
Posso guardarmi intorno e cercare un passaggio.
I pappagalli non hanno voglia di schiodare da qui, ma magari una fanella, o un merlo.
Un giro breve, di qualche giorno, poi torno.
Nessuno se ne accorgerà.
Andando verso ovest, mi cade lo sguardo sulla chioma di un altro grande ficus. È quello intitolato ad un giudice ucciso dalla mafia, Giovanni Falcone. So bene quanto questo albero sia amato, quanto sia importante ciò che rappresenta. Eppure mi sembra che stia soffocando nel cemento.
Poco più avanti faccio una sosta in un luogo noto ma che fatico a riconoscere, una casa che avrà all’incirca la mia età, un paio di secoli.
Prima degli anni cinquanta venivo spesso negli agrumeti qui intorno. Ora gli agrumi non ci sono più. Anche qui vedo solo cemento, vetro, lamiere di automobili.
[Giuseppe Barbera] Io ci sono nato in mezzo agli agrumi la casa dove siamo adesso circondata da palazzi di dieci piani quando io avevo 18 anni era circondata da mandarini da distese di mandarini Palermo si intravedeva dalle finestre del primo piano a Palermo si intravedeva a stento in fondo.
In questa casa oggi vive Giuseppe Barbera, un uomo che ho visto molte volte all’orto, spesso ha parlato di libri che raccontano di paesaggi, piante, arte e storia.
[Giuseppe Barbera] Noi quando vivevamo a Palermo qua veniva venivamo d’estate….Mia nonna, lo racconta in un libro, quando negli anni 60 fecero questa grande speculazione edilizia, veniva qui a condizione che dalla casa di Palermo venisse coperta da un velo in modo che lei non vedesse quello che era successo. Lo scempio del paesaggio della sua della sua vita… altro che genius loci.
Questo giro dell’isola che mi sono proposta di compiere, sarà più intenso e sorprendente di quanto possa immaginare. Di tradimenti come questo di Palermo ce ne sono stati altri. Alcuni di noi, noi genius loci, sono scomparsi per sempre,..ma sono certa che ce ne siano altri nati da poco.
Sono tentata di fermarmi ancora un po’ al ficus di questo giardino, quasi sento già nostalgia di casa, ma ascoltare quest’uomo che parla di paesaggio mi ricorda perché sono partita.
[Giuseppe Barbera] Il paesaggio ha questa caratteristica di tenere insieme la complessità. E il problema in questi tempi è proprio tenere insieme la complessità. Perché sarebbe facile dire un paesaggio io lo difendo perché bello e un altro perché brutto. Ci faccio quello che voglio. Oppure un paesaggio lo difendo perché dal punto di vista ecologico è fondamentale l’altro ci faccio autostrade o nuovi petrolchimici com’è successo…tutto è paesaggio, perché un’idea di paesaggio ci consente di tenere insieme, come si dice, utilità e bellezza. E questo secondo me è la sfida di questi tempi e questo è la ragione per cui la Sicilia in termini di paesaggio sia così importante.
Tira un po’ di vento da est, ne approfitto.